In programma nei giorni:
gio 25 feb 2016 ore 21:00
Un mondo fragile
regia
César Augusto Acevedo
cast
Con Haimer Leal, Hilda Ruiz, Marleyda Soto, Edison Raigosa, José Felipe Cárdenas
durata
97
nazione
Colombia, Francia, Paesi Bassi
uscita
24 settembre 2015
genere
Drammatico
distribuzione
Satine Film
produzione
Film d'essai:
Si
giudizio CNVF
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Il film narra la storia di Alfonso, un vecchio contadino che, dopo diciassette anni, torna dalla sua famiglia per accudire il figlio Gerardo, gravemente malato. Al suo ritorno, ritrova la donna che era un tempo la sua sposa, la giovane nuora e il nipote che non ha mai conosciuto, ma il paesaggio che lo aspetta sembra uno scenario apocalittico: vaste piantagioni di canna da zucchero circondano la casa e un’incessante pioggia di cenere, provocata dai continui incendi per lo sfruttamento delle piantagioni, si abbatte su di loro. L’unica speranza è andare via, ma il forte attaccamento a quella terra rende tutto più difficile. Dopo aver abbandonato la sua famiglia per tanti anni, Alfonso ora cercherà di salvarla.

Alfonso, anziano campesino che ha lasciato la sua famiglia e la sua terra diciassette anni prima, ritorna a casa. A muoverne i passi la salute del figlio, che versa in condizioni precarie a causa di una malattia respiratoria. Tollerato a fatica dalla vecchia consorte, che non gli perdona il passato, Alfonso partecipa con valore e pudore all’economia domestica famigliare, accudendo figlio e nipote in assenza delle donne, occupate in una piantagione di canna da zucchero. Subentrate nella raccolta a Geraldo, suocera e nuora combattano ogni giorno contro l’asprezza del mestiere e l’illegittimità di un regime lavorativo che pretende produttività in cambio di un salario prorogato. Esperanza vorrebbe andar via ma Geraldo è bloccato dall’affezione e dall’affetto che porta a quella madre ostinata a restare e resistere nella sua fattoria mentre la campagna intorno brucia sotto il vento del ‘progresso’. Tra un incendio che avvampa e una vita smorzata, tra un aquilone che si solleva e troppa polvere che si posa, Alfonso infilerà nuovamente la strada per scampare il nipote e mettere in movimento il domani.Opera prima di César Acevedo, Un mondo fragile è tutto in un piano sequenza, quello iniziale. Un uomo si stacca dal fondo e avanza con una valigia in mano lungo una strada sterrata, dietro di lui un enorme camion compare sollevando al suo passaggio la polvere. Raggiunto l’uomo con la valigia il mezzo produce un suono d’apocalisse avvolgendolo in una nuvola di polvere. Polvere invalidante che penetra l’esistenza e spezza il respiro degli uomini. In un minuto il regista colombiano riassume quello che Christopher Nolan ha impiegato lustri a spiegare: quella ‘terra’ è invivibile a lungo termine per chi avesse deciso per un avvenire a lungo termine. Eppure da qualche parte, nella Colombia arida di Acevedo, una donna prova a resistere dentro la sua fattoria e a fianco del figlio, riparato sotto un lenzuolo bianco, che rinforza poeticamente l’impressione di osservare qualcuno già morto e protegge i suoi polmoni dal mondo esteriore, che piove cenere, terra, polvere. Ed è la polvere a comporre il film di Acevedo e a diventare componente dei suoi quadri. È dappertutto, entra da porte e finestre (senza vetri), penetra da ogni angolo di piano, vola, si deposita e si confonde al fumo dei campi, incendiati da una volontà di potare e ‘recidere’. È ancora lei a spingere i protagonisti all’esilio per far meglio che sopravvivere con un lavoro che tende le braccia come rami ma non paga (letteralmente). In parallelo al nucleo familiare rurale, raccolto in una ‘veglia funebre’ precorsa, Un mondo fragile svolge la ribellione e la rassegnazione dei raccoglitori di canna da zucchero a cui il giorno di paga è rimesso sempre all’indomani, come un peccato. In questa terra appiccata dal ‘progresso’ e soffocata nei sogni, ritorna un uomo, un fantasma dal passato, una ‘voce’ aggrappata a una società rurale che sembra uscita dalle pagine di Juan Rulfo. Dell’orizzonte magico della letteratura di Rulfo, Un mondo fragile condivide la pienezza arcaica e l’universo interiorizzato, frammentario e fantasmagorico, un luogo lontano dalla modernità non per convinzione ma per mancanza di mezzi. Un mondo muto e isolato dove i protagonisti osservano la propria vita scorrere, il proprio nipote giocare, la propria consorte appassire, il proprio figlio morire. Nessuno se ne lamenta, così è la vita. Ogni generazione genera la seguente cosciente che quell’esistenza, con le sue espressioni di gioia e le sue lunghe frasi di tristezza, si paga, qualche volta troppo cara. Una vita che passa tutta tra una casa, un albero, una panchina e le piantagioni intorno dove guardiamo un uomo cercare di nuovo il suo posto in famiglia. Una famiglia che vuole salvare, voltando pagina e scommettendo sul nuovo. Alfonso non si trasforma, non rinnega e non nega, si posiziona nella sua stessa identità, di fronte a se stesso e alla sua verità che non è altro se non la libertà di scegliere come si vuole vivere. César Acevedo indaga con occhi (im)pietosi e lucidi il presente e il recente passato del suo paese, la fase acuta di una crisi sociale esplorata da un cinema intraprendente che fa il paio con quello di Pablo Trapero (El Clan), Pablo Larraín (The Club), Lorenzo Vigas (Desde allà), Gabriel Mascaro (Boi Neon). Un cinema vivo, fisico e immerso, capace di tradurre il senso di un profondo disagio collettivo in espressioni di rinascita. Un cinema ‘in marcia’ con una qualità pressoché unica oggi: quella di essere necessario.

Commento tratto da www.mymovies.it - Scheda pubblicata il 16 gennaio 2016 .